Il mio lavoro mi porta ad ascoltare storie di vita fatte di sofferenza, di traumi, di momenti di grande difficoltà. ⁣

Accanto al mio lavoro in studio, sono sempre contemporaneamente in altri contesti:⁣

Qualche anno fa ho lavorato con i ragazzi di BLIVE. Mi occupavo di organizzare attività ricreative in ospedale e fuori, per ragazzi affetti da malattie oncologiche o croniche. ⁣

Mi sono ritrovata spesso a fare i conti con la morte. ⁣
Ho visto genitori perdere i propri bambini, ho dovuto salutare ragazzi che nonostante la loro lotta non sono riusciti a vincere. ⁣

Cosa ho imparato? ⁣

A tollerare il mio limite, la mia impotenza, a fare i conti con l’ingiustizia della vita, ma soprattutto ho imparato da loro a vivere. ⁣

Ho imparato a godermi ogni momento, a non lamentarmi di tutto, ad amare gli altri e provare a comprenderne i difetti.⁣

NO, non sono diventata santa, mi arrabbio, mi infastidisco anch’io a volte per sciocchezze e mi lamento eccome. ⁣
Ho solo imparato a rifletterci maggiormente, a sforzarmi di vedere la bellezza in ogni giornata .⁣

Ora lavoro in una RSA. Con i “miei” nonnini ho riscoperto la lentezza, la pazienza di ascoltare un racconto che può durare a lungo, dove ogni tanto non ci vengono le parole o non ricordiamo qualcosa, ma che contiene delle grandi lezioni di vita. ⁣

Anche in questo contesto non sono esente dal ritrovarmi di fronte alla morte. ⁣
Figli e nipoti sono consapevoli che la perdita del loro caro potrebbe essere vicina, ma in fondo siamo mai davvero pronti a perdere chi amiamo?⁣

Il mio ruolo li è anche stare accanto in quei momenti, in cui bisogna comunicare che purtroppo ci ha lasciati. Lunghi abbracci e tante lacrime da chi mi sta di fronte. ⁣

E….OGNI VOLTA, i miei occhi diventano lucidi. ⁣

Mi è stato detto “ ma come tu sei psicologa non puoi piangere!” ⁣

E’ proprio così? Ho riflettuto per giorni, mi sono confrontata con la mia collega, e siamo arrivate a questa conclusione: ⁣

E’ vero siamo psicologhe, la sofferenza e la morte sono ambiti in cui lavoriamo quotidianamente.
Siamo psicologhe, ma non per questo non abbiamo emozioni, anzi credo che per fare questo lavoro bisogna imparare a sentire le proprie emozioni, ma soprattutto a sentire quelle di chi ci sta di fronte, si chiama empatia.

La differenza è piangere disperato come chi ti sta accanto oppure accogliere il loro dolore, sentirlo. Certo ciò può portare ad avere gli occhi lucidi, la pelle d’oca, ma allo stesso tempo ad essere li, ferme, presenti, ad accogliere il loro dolore, ma non esserne “ travolta “.
Credo sia la sfumatura più complessa nel nostro lavoro: sentire davvero l’altro, sentirne le sue emozioni, sentirle di pancia, ma allo stesso tempo riuscire a mantenere le giuste distante. Quelle distanze che ci portano a poter ascoltare e sentire il dolore dell’altro, ma aiutarlo a sentirsi accolto, aiutato e supportato, lasciare il lavoro fuori quando rientriamo a casa, senza diventare delle macchine fredde e distaccate.
Mi abituerò mai ad accogliere la morte senza sentire gli occhi lucidi?
Non credo, e forse è giusto così.

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